Non sono solo parole.

di redazione di NoiNo.org

Non sono solo parole.

Arriva nella sezione kit scuole di NoiNo.org la prima scheda dedicata a docenti, genitori, educatori ed educatrici: "Combattere la violenza di genere dal linguaggio". Le riflessioni, il laboratorio e gli approfondimenti proposti dall'associazione Il Progetto Alice sono uniti da un filo rosso: il linguaggio che usiamo con i giovanissimi non è solo uno strumento per trasmettere informazioni, e non è solo verbale. Le parole e i gesti che scegliamo contribuiscono a costruire un mondo di relazioni concrete. Ma riconoscono pari dignità agli uomini e alle donne? Rispettano la diversità tra le persone? Ne parliamo con Cristina Gamberi, ricercatrice in studi di genere e cofondatrice dell'Associazione.

Il laboratorio proposto in questa scheda è rivolto ai docenti: perché è importante che siano loro per primi a porsi in questione?
C'è un motivo pragmatico: i docenti sono gli adulti che passano più tempo con i ragazzi e le ragazze di una classe, quindi il loro comportamento ha un'influenza  maggiore di quella di chiunque altro. Ma prima di tutto, è utile parlare di educazione al genere con i docenti per lo stesso motivo per cui è importante farlo con i giovanissimi: per fare insieme un percorso di riflessione sull'identità di genere come "costrutto sociale", con l'obiettivo di arrivare a una maggiore consapevolezza e di contribuire alla prevenzione di comportamenti violenti.

Cosa intendi per identità di genere? Sul tema c'è confusione, e la parola "gender" viene usata spesso a sproposito.
Si tratta semplicemente di portare le persone a riflettere sul fatto che ciò che ci identifica come persone di genere maschile o femminile non è solo quello che ci differenzia in modo innato (il nostro sesso biologico), ma è anche frutto di condizionamenti della società e influenzato dalla cultura in cui cresciamo. Condizionamenti che avvertiamo a volte come positivi, altre volte in contrasto rispetto ai nostri desideri o alle nostre inclinazioni personali... Questi condizionamenti si possono tradurre in frustrazioni e sofferenza individuale, ma anche in conflitti interpersonali. Immaginiamo di avere in testa un modello molto rigido di ciò che dovrebbe essere un uomo o una donna "corretto", ma di di avere relazioni con persone che non corrispondono a queste aspettative, nel lavoro o nella vita sentimentale: la violenza può diventare un modo per "rimettere a posto" le cose.

Ci fai un esempio di come di come questi stereotipi possono influire sui teenager, o sui loro percorsi scolastici?
Pensiamo a una ragazzina con un'inclinazione per la tecnologia: se si forma in una scuola in cui le fanno percepire che è un percorso "poco adatto a lei", ad esempio perché non le propongono figure di riferimento femminili, difficilmente si sentirà libera di studiare per diventare una perita elettronica o un'ingegnera informatica.
E lo stesso vale per i maschi: nella costruzione dell'identità maschile è molto diffusa l'idea che la maschilità, il "saper essere virile" si esprima attraverso il raggiungimento di competenze, traguardi professionali, affrontare la competizione con coraggio... escludendo a priori che alcuni ragazzi possano sentirsi più orientati verso una dimensione di cura, o possano vivere la loro maschilità in modo meno agonistico.
Naturalmente tutte le scelte sono legittime, il problema sorge quando solo alcune vengono indicate socialmente come inadatte, sbagliate, ridicole... in questo il condizionamento degli adulti è molto forte, anche inconsapevole.

Per evitare di riprodurre questi condizionamenti, voi suggerite un laboratorio che agisce sul "curriculum nascosto": che cos'è?
Partiamo dall'idea che gli insegnanti "insegnano" anche quando non "fanno lezione", come tutti noi adulti che ricopriamo dei ruoli educativi (educatori, genitori...): cioè forniamo modelli ed esempi con il nostro comportamento.
Facciamo un esempio: in un liceo, l'insegnante compila le schede di valutazione di un gruppo di studenti e studentesse particolarmente meritevoli: i ragazzi vengono definiti "brillanti", le studentesse "diligenti". A parità di merito, vengono date valutazioni differenti: le femmine vengono premiate perché "docili", i maschi perché si prendono il loro spazio, perché esprimono la loro individualità.
Niente di nuovo, eh? Nel '73, Elena Gianini Belotti ("Dalla parte delle bambine") già ci raccontava come il movimento del corpo delle bambine e dei bambini venga disciplinato in maniera diversa sin dall'infanzia: immobili le prime, mobili i secondi.
Se ci aspettiamo che ragazze e ragazzi si comportino in un certo modo, finiamo per premiare chi corrisponde a questo pregiudizio. E questo atteggiamento viene percepito dai più giovani, che si comportano di conseguenza per confermarlo: è quella che si dice una "profezia che si autoavvera". Questo si riflette anche in altri momenti: durante una discussione in classe, a chi diamo la parola? Spesso, a chi si sente più "autorizzato" a dire la sua. A volte è un maschio, altre la leader di un piccolo gruppo.
Il nostro laboratorio "l'istruzione del sosia" serve proprio a guardarsi dall'esterno, per diventare più consapevoli del nostro modo di agire.

E una volta che si è diventati consapevoli, come si fa a cambiare atteggiamento?
Si possono mettere in atto tanti piccoli "stratagemmi educativi" per evitare certe dinamiche: ad esempio, quando noi facciamo attività con i ragazzi e le ragazze, stabiliamo piccoli gruppi misti e stiamo attente alla "democrazia" interna. E, come indichiamo nella scheda, raccomandiamo la massima attenzione al linguaggio che si usa: declinare correttamente le professioni al femminile ("sindaca", "avvocata" ecc.), non usare termini "maschili" come se fossero neutri ("la storia dell'uomo")...

Molti (e molte) dicono: alcune parole al femminile suonano male, sono scorrette... cosa rispondi?
Prima di preoccuparci delle regole di ortografia e di sintassi, proviamo a pensare a quanto il linguaggio ci rivela quando lo usiamo con inconsapevolezza, senza starci a pensare tanto su (la maggior parte delle volte, per fortuna): a volte è come una spugna che assorbe i cambiamenti della società, altre volte una cartina di tornasole che segnala le resistenze a quel cambiamento. Ad esempio spesso definiamo "brutta" un'espressione che ci indica qualcosa di nuovo, un cambiamento che ci mette in crisi. Parlando di professioni, abbiamo letto delle forme stranissime e sbagliatissime come "La ministro" o "La signora ministro", inventate per non declinare completamente al femminile una parola che indica autorità e prestigio, con la scusa che la carica istituzionale sarebbe "neutra". Ma il neutro nella lingua italiana non c'è.
E pensiamo alle parole che, a seconda del genere a cui vengono declinate, hanno significati diversi e discriminatori per le donne: "Uomo pubblico" e "Donna pubblica", "il Maestro" e "la maestra"... sono tutti spunti su cui riflettere, anche in classe.

Ci sono casi speculari, in cui sostantivi declinati per abitudine al femminile escludono i maschi?
Certo, pensiamo a tutte le volte che un padre che si occupa dei figli e della casa, come oggi succede sempre più spesso, viene chiamato "mammo": succede anche sui mezzi di informazione. E anche quando l'intenzione è affettuosa, non ironica, il messaggio implicito è che il ruolo indicato tradizionalmente dalla parola "padre" è un altro, mentre sarebbe giusto che comprendesse una pluralità di modelli: dall'autorevolezza alla cura.

Però un discorso completamente declinato sia al maschile che al femminile diventa farraginoso; hai dei consigli pratici?
Quanto ai discorsi, ai testi articolati, non dobbiamo avere un approccio "burocratico" al linguaggio rispettoso del genere. La linguista Cecilia Robustelli, occupandosi del linguaggio per le comunicazioni della pubblica amministrazione, ha dato delle indicazioni utili per non scrivere testi farraginosi, che possiamo adattare a molte situazioni. In pratica, invece di correggere un testo standard raddoppiando meccanicamente il genere ogni singola volta, conviene riscriverlo pensando all'autentico significato di quello che vogliamo comunicare. Così possiamo sottolineare la presenza di tutti e due i generi quando è veramente importante farlo, e in altri casi possiamo usare semplicemente una delle tante forme alternative che la nostra lingua ricca e varia ci offre.

Nei testi scritti, specialmente quelli digitali, vanno di moda gli escamotage grafici come "vi aspettiamo tutt*", "benvenut@", il/la bambino/a", che però non possono essere pronunciati così come sono scritti...
Se funzioneranno o meno, lo deciderà essenzialmente l'uso che ne farnno i parlanti (e gli scriventi). Intanto, Sono forme che denotano l'intenzione, da parte di chi scrive, di segnalare un'esigenza di rinnovamento, che si aggiunge alla trasformazione degli strumenti di scrittura. Questi due cambiamenti potrebbero portare a un'evoluzione della lingua, che è un organismo vivo e mutevole. Ad esempio oggi l'Accademia della Crusca ammette l'uso di termini di origine straniera, come "transgender", che fino a pochi anni fa sarebbero stati bollati come "barbarismi" e basta. 



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